Massimo Fini, Il Ribelle dalla A alla Z, Marsilio 2006.
“Io diffido di tutte le persone sistematiche e le evito. La volontà del sistema è una mancanza di lealtà”.
Così si esprime Nietzsche in uno dei suoi penetranti aforismi. Che ricorre alla memoria leggendo l’ultimo – per ora – testo di Massimo Fini (1), nel quale egli rivendica la coerenza del proprio pensiero, sostenendola di contro alla forma frammentaria della serie di articoli più o meno brevi. In realtà la frase del pensatore tedesco si attaglia male a Fini, perché il libro pare permeato da una attitudine del tutto spontanea al quadro coerente. Più che volontà di sistema, si potrebbe parlare di istinto. Per questo la scelta di presentare le proprie riflessioni sotto la forma di una serie di lemmi in ordine alfabetico – salvo la prima, di particolare rilievo nell’insieme – rende più scorrevole e piacevole la lettura, sebbene in passato l’autore non sia mai venuto meno alla diretta, trasparente facilità del suo stile. Il lettore, non vincolato da alcuna successione cronologicamente obbligata, può percorrere i percorsi in ogni direzione, inseguendo i riferimenti interni e aiutandosi dall’indice.
“Un ribelle deve esserlo, almeno in una certa misura, anche a se stesso”. Questa frase, contenuta in una delle voci più significative del libro, ci racconta la novità di questo ultimo testo di Fini. Finora, nelle opere precedenti, si poteva notare un forte sbilanciamento a favore della pars destruens, con una pars construens molto più debole e incerta. I due passaggi teorici possono essere distinti con una certa chiarezza.
Da un lato abbiamo la sistematica denuncia della modernità occidentale, secondo un triplice livello di critica: alla politica, all’economia, all’antropologia (2). Gli orientamenti politici attuali sono rigettati tanto nella loro espressione internazionale che nelle loro configurazioni statali; l’imperialismo degli USA, ipocrita e padronale, legato all’ideologia del mercato e alla retorica fasulla dei diritti umani, maschera la prepotente pulsione egemonica della superpotenza; la vita interna degli stati è una democrazia fasulla basata sulla mediocrità del ceto politico, sulla sistematica conculcazione della (vera) democrazia con la manipolazione mediatica delle masse e la pagliacciata delle elezioni (3). Tale politica è intimamente correlata al sistema economico attuale, paranoico, dedito alla distruzione della natura e all’insensato accumulo delle ricchezze, sfinito dall’accelerazione della vita e dalla voracità di nuove tecniche. Tutto ciò è costruito sopra quello che consideriamo il punto fondamentale del pensiero di Fini, la critica dell’uomo moderno, delle sue abitudini, difetti e mondo interiore. L’autore, infatti, non mostra particolare cura ne’ della povertà dei paesi del Terzo Mondo ne’ delle condizioni di oppressione e mancanza di diritti che li caratterizzano (anzi, povertà e assenza di diritti e democrazia diventano quasi una virtù, avendo una radice irredimibilmente oppressiva; il vero dramma è il tentativo – per lo più fallito – di imitare l’Occidente [4]), ma pone particolare attenzione al perdurante percorso di espansione della politica e della cultura occidentali. Che debbono necessariamente basarsi sulla sottostante antropologia dell’uomo contemporaneo. È la mancanza di dignità, di orgoglio di sé, di interiore serenità (atteggiamento psicologico correlato al senso del limite e del destino delle società premoderne), che dà luogo al vuoto esistenziale e morale, all’edonismo più volgare e opulento. Dalla centralità di tale punto – conforme peraltro al percorso professionale di Fini, cronista attento alla quotidianità – la riflessione si allarga fino a comprendere nella condanna la politica, l’economia, la cultura.
Per ciò che attiene la pars construens, vediamo una novità nel percorso dell’autore. Si tratta quasi sempre del lato più debole della critica sociale, spesso tacciata di non proporre alternative e di essere, quindi, scarsamente incisiva (5). Nel nuovo testo Fini rilancia la sua – non certo originale – idea di un uomo che dall’equilibrio fra Natura e Cultura si è spostato troppo verso quest’ultima. Da qui la necessità di recuperare quella dimensione ritornando, per quanto possibile a piccole comunità rette da principi di democrazia partecipata, a forme di vita meno schiavizzate dal sistema economico. Fin qui non si scorgono innovazioni rispetto a quella forma di neoilluminismo che già permeava le opere precedenti (6). In concomitanza con tale linea argomentativa si propone però una vera e propria etica alternativa: quella del ribelle. “Il ribelle è un uomo che dice no” (p. 211). Nello svolgimento del corrispondente capitolo (p. 211-218) – ma anche in altre voci – viene proposta questa figura ideale. Pressocché nulla, salvo il ribelle, sfugge ad una considerazione negativa nel testo, che riesce a parlare un po’ di tutto. Perciò esso diviene il condensato delle qualità positive: è uno spostato in lotta con lo status quo, eroicamente solo, orgogliosamente fermo nella sua coerenza, che poi è la sola base valoriale che lo sostiene, in quanto si distingue dal rivoluzionario perché questi cerca di instaurare, da conformista, un altro ordine. Solo ad un certo stadio il ribelle, il disubbidiente, può dismettere l’attitudine prometeica e vivere la relazione con gli altri.
Proponendo questa apologia dell’Eroe solitario, è evidente come Fini fuoriesca dal discorso politico per tornare a una forma di estetismo che ricorda tanto D’annunzio quanto Evola (“rimanere in piedi in un mondo di rovine”). Per cui, rispetto al mito del ritorno alla Natura, l’argomentazione risulta ancora meno costruttiva, fondata com’è su presupposti strettamente personalistici.
Il punto che è più interessante è che tale figura, consapevolmente ideale e mitica, ci rituffa non tanto nel mondo dell’estrema destra tradizionalista o nel primo Romanticismo europeo. A noi pare che ci sia familiarità con i furori dello Stürm und Drang, il famoso movimento estetico-artistico sviluppatosi intorno al 1770 che anticipò molti temi romantici, ma con molta maggiore accentuazione del ribellismo titanico. Il Werther di Goethe ne è l’espressione più celebre. E che si contrappone alla cultura illuministica coeva, ma condividendone inevitabilmente la radice individualistica. Fini ci pare così confermarsi come un illuminista.
Il sito della casa editrice:
http://www.marsilioeditori.it/
Il sito dedicato a Alain de Benoist (contiene testi e libri anche in italiano):
http://www.alaindebenoist.com/
Note
1 Fini è prolifico di testi, forse in virtù della sua professione giornalistica; paragonabile ad altri autori come Marco Travaglio – dotato, pur con la riserva del fatto che scrive quasi sempre con dei coautori – di una capacità prodigiosa di espulsione di best-sellers. E’ probabilmente l’attitudine del giornalista a scrivere con tempi stretti numerosi articoli che li differenzia da altri saggisti più misuratamente sorvegliati e lenti nella scrittura.
2. Abbiamo già riassunto il pensiero di Fini, si veda la recensione a Sudditi.
3. A differenza di molti critici, Fini non critica la mancata attuazione di alcuni concetti, ma la loro stessa essenza, che secondo lui è strutturalmente tesa al dominio: i diritti umani sono espressione dell’etnocentrismo occidentale, la democrazia rappresentativa basata sulla fattuale – prevedibile – impossibilità di una scelta realmente consapevole, ecc. Soprattutto da questi punti si evince la lontananza dell’autore dall’ambito altermondialista dei Forum Sociali e la sua prossimità alla destra anticapitalista (se tale definizione può venir accettata dai suoi esponenti) di Alain de Benoist. Si veda la sua posizione sulla guerra (pp. 90-96): si oppone alla guerra moderna in quanto eccessivamente tecnologizzata e non conforme all’istinto (maschile) naturalmente portato al conflitto, che le guerre precedenti, invece, possedevano. Tale visione, cui in verità non è dedicato molto spazio, sconfina nel mito: “La guerra soddisfa infatti pulsioni e bisogni profondi dell’animo umano… […] È evasione dal frustrante tran tran quotidiano, dalla noia [sic!], dal senso di inutilità e di vuoto… […]. È avventura, evoca e rafforza la solidarietà di gruppo. […] Attenua le differenze di classe, economiche, di status, che perdono importanza. Si è più uguali in guerra” (ivi, p. 91).
4. Il libro riporta a tal proposito molti aneddoti autobiografici, esperienze sul campo, piccoli dialoghi. Fra questi risultano particolarmente efficaci e vivaci quelli dedicati all’Iran, che Fini ha visitato sotto Khomeini. Questi scorci di realtà vissuta illuminano e sostengono il filo del ragionamento che in altri testi, stante l’assenza di riferimenti concreti appariva un po’ troppo astratto e moraleggiante.
5. A ciò aggiungiamo che unirsi nel rifiuto o nella condanna di qualcosa è relativamente agevole, mentre trovare un consenso su un percorso costruttivo è molto più difficile, come mostra l’esperienza comune. Ogni governo in carica attira una certa quantità di strali da parte di critici che però dissentono regolarmente fra loro quando si tratta di suggerire delle alternative.
6. Un’obiezione che inevitabilmente si trae dai suoi “rimedi” non può che essere che proprio il pensiero illuminista (e ancor di più quello romantico) fu dedito tanto a fondare la critica del presente col confronto critico col passato quanto a fare guerra alla Cultura in nome della Natura. Proprio le forze intellettuali-ideologiche che hanno creato democrazia, liberalismo e modernità paiono essere le stesse a cui attingere per la loro critica”. Così scrivevamo riguardo a Sudditi (si veda), pubblicato nel 2004. Rievochiamo tale rilievo prendendo atto che Fini stesso ammette in un certo modo la configurazione illuministica del suo pensiero: “Per le mie critiche mi servo dello strumento principe della cultura occidentale: la ragione. Non sono un irrazionalista […] Critico la ragione illuminista […] con gli strumenti della ragione, ricordando però anche che l’illuminismo […] non ne ha ne’ il monopolio ne’ l’esclusiva e che la ragione esisteva anche prima” (p. 163, ma si veda anche p. 121-122).