Il testo si divide in tre parti: Il deserto, Brecce, Frontiere interne, secondo una scansione – non rigorosamente – cronologica. La prima sezione allude nel titolo all’isolamento dei militanti antisionisti, così fortemente avversati dal granitico consenso della società israeliana dei primi decenni – fino agli anni Settanta – da costituire gruppuscoli numericamente irrilevanti pressoché incapaci di incidere sulle politiche israeliane. La parte che segue vede invece il formarsi di brecce – appunto – in tale consenso totalitaristico, tanto da alimentare un dissenso seriamente influente sulle scelte del governo. Si parla, infatti del rifiuto da parte di militari di prestare servizio nei Territori Occupati, e di manifestazioni di massa contro la guerra in Libano[2]. L’ultima sezione è dedicata al periodo dagli anni Novanta fino alla seconda Intifada, che vede le speranze e la conseguente delusione riguardo al processo di pace di Oslo.
Soprattutto i capitoli dedicati alle vicende più recenti attireranno l’interesse della maggior parte dei lettori. In questi troviamo infatti un’interessante analisi sull’identità sociale della nuova destra, quella di Sharon e Netanyau; questa è interprete, secondo Warschawski, di un nuovo blocco sociale formato da ebrei religiosi, di estrazione popolare e di cultura levantina, visti dalla sinistra sionista come arretrati e destinati a venir inglobati nel modernismo di carattere occidentale patrocinato dai sionisti di sinistra. Piuttosto curiosamente, l’autore esprime tutto il suo disagio (p. 218) nei confronti del disprezzo della sinistra israeliana verso quell’Israele retrogrado, incivile, e popolare.
Ma questo porta al centro del libro, ai temi di fondo di quella riflessione che attraversa e impregna di sé fatti, personaggi, episodi, incontri. Al tema della frontiera, appunto. Tema di moda, oggi, tanto nella sua declinazione geopolitica – la frontiera/ confine come barriera politico-militare attraverso la quale si disegna l’articolazione della potenza[3] - quanto nella versione più “culturalista” (confini fra culture diverse, il cui perimetro sfugge a una definizione rigorosamente cartografica per sfumare nell’apparenza fisica, nelle abitudini familiari e alimentari, o persino nelle radici filosofiche), ma raramente in entrambe. Nei passi di più forte elaborazione concettuale del testo l’autore proietta il tema in una dimensione politica[4]: frontiera fra due territori col rispettivo retroterra politico-militare, fra due popoli con culture, lingua, costumi sociali diversi, ma anche fra due aree ideologico-politiche con scarsa conoscenza reciproca. L’impegno a far fluire una maggior conoscenza reciproca è attestato con forza, nel suggerire agli arabi, oscillanti fra panarabismo socialista e nazionalismo palestinese, che Israele non è il blocco monolitico militarizzato che credevano, ma un paese che al di là della sua vocazione coloniale conserva in sé tensioni e contraddizioni; e nel far conoscere ai cittadini israeliani la realtà dei paesi arabi e le condizioni dell’occupazione. Lo sbocco di Warschawski è l’affermazione della solidarietà:
la scelta di solidarietà, lasciandoci da questa parte della frontiera, ci costringeva a rivendicare la nostra appartenenza alla collettività che vi viveva. Non sostenevamo da palestinesi la lotta dei palestinesi, né da cittadini del mondo, ma da israeliani: israeliani che avevano scelto di rompere con le pratiche e l’ideologia dominante della loro stessa società [5].
Questo è l’orizzonte fondamentale verso il quale ha proceduto il percorso politico di Warschawski, che dà senso a tutti i suoi passaggi: dall’adesione al Matzpen (piccola formazione di dissidenti del Partito comunista israeliano, fuoriusciti perché troppo critici verso lo stato d’Israele e verso il comunismo sovietico), agli incontri con i palestinesi, dal processo e dalla condanna alla mobilitazione contro la spinta alla colonizzazione degli anni Novanta.
È questo che rende il libro, oltre che prezioso e importante per una maggior conoscenza di alcune realtà dietro il conflitto israeliano-arabo, affascinante e gravido di significato per il futuro. Un futuro nel quale, vista la velocità di conversione dei conflitti dalle mappe ideologiche novecentesche alle frizioni culturali del nuovo secolo, si proporrà sempre più la necessità di attraversare i confini della propria identità senza perderla, o negarla per acquisirne una nuova. Per tutti coloro che condividono gli ideali dell’altermondismo si tratta di una testimonianza straordinariamente centrata nel problema della ricerca di convergenze a partire da impostazioni differenti, integrandosi fra universalismo e il proprio patrimonio ideale, storicamente e concretamente “situato”.
Il tono degli ultimi capitoli, concepiti dopo l’inizio della seconda intifada (ottobre 2000), è pessimistico e sembra assommare tutte le delusioni che il processo di pace di Oslo aveva suscitato. E le vicende attuali[6] sembrano confermarne i timori, almeno per quanto riguarda le vicende della società israeliana, espresse in uno degli ultimi capitoli, Ritorni. Ritorno dell’unanimismo, senza sfumature né dissenso dei primi venti anni di Israele. Ritorno della criminalizzazione dell’altro senza remore. Ritorno della militarizzazione della società.
Nonostante tutto ciò Warschawski rifiuta di abbandonare le speranze, ma sceglie di scommettere sulle istanze del buon senso, soprattutto di quello di persone quali Nurid Peled, madre di una ragazza uccisa in un attentato a Gerusalemme nel 1997:
oggi, quando non vi è pressoché alcuna opposizione alle atrocità del governo israeliano, quando il campo della pace è svanito nell’atmosfera rarefatta, deve levarsi un grido, antico come gli uomini e le donne, che superi le differenze di razze, religioni o lingue, il grido della maternità: salvate i nostri figli ! [7]
Il sito di Bat Shalom, sito pacifista di donne israeliane e palestinesi(in inglese):
http://www.batshalom.org/
Consulta il sito dell’Alternative Information Center(in inglese), di cui Warschawski è condirettore
http://www.alternativenews.org/
Il sito della casa editrice:
http://anteprima.turboprint.it/cittapertaedizioni/index.asp
NOTE
[1] Il sionismo è il movimento, sorto fra fine Ottocento e primo Novecento, che ha affermato la necessità da parte degli ebrei di acquisire un territorio nazionale per sottrarsi dalle secolari persecuzioni. Il patrimonio di tale ideologia politica si è riversato tanto nella destra che nella sinistra israeliana.
[2] Si allude, ovviamente, agli eventi avvenuti fra il 1978 e il 1982.
[3] Si pensi all’autorevole rivista di geopolitica Limes, (si veda http://www.limesonline.com/ )il cui nome allude appunto al “confine” in senso politico-militare. In questo settore di studi non si ignorano certo le specificità culturali e (soprattutto) religiose, da parte degli autori più avvertiti. Emblematico è il corposo volume di S. Huntington. Ma va specificato che esse vengono semplicemente assunte come variabili del dato geopolitico e militare, al pari di catene montuose e giacimenti petroliferi, senza alcuna considerazione della loro importanza in sé.
[4] I due passi centrali del testo sono l’Interludio, pp. 21-24, e la fine del cap. 6, parte I, pp. 80-84.
[5] P. 83 del testo.
[6] Ci riferiamo al recente conflitto israelo-libanese che mentre scriviamo (settembre 2006) pare più sospeso che davvero risolto. Ma la conferma del pessimismo di Warschawski risiede non tanto nella risoluzione della vicenda bellica, quanto nell’entità del dissenso pubblico sulla guerra da parte dei cittadini israeliani, che pare estremamente marginale, salvo una polemica violenta ma riguardante l’inadeguatezza della strategia militare!
[7] Tratto dal sito internet di Bat Shalom, citato nel testo a p. 261.