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Biblioforum


Massimo Fini, Ragazzo. Storia di una vecchiaia, Marsilio 2007.

  • Massimo Fini, Ragazzo. Storia di una vecchiaia, Marsilio 2007.

    “Un grido di raccapriccio per la vecchiaia”. Tale definizione, che Fini adopera per l'opera di Proust, risulta particolarmente adeguata per questo breve, singolare testo, nel quale l'autore sospende la sua personale crociata contro la modernità per volgersi alla riflessione autobiografica nella sua curvatura finale: la vecchiaia.
    La dimensione autobiografica è in fondo la base della sua impostazione politico-ideologica, la cui esposizione vede un costante ricorso a esperienze personali – fino all'aneddoto curioso e interessante. Stavolta essa è nettamente prevalente, anche se non rinuncia ad abbozzare una riflessione di carattere generale. Il cui fondo è assai amaro.
    Negli agili capitoletti in cui il discorso si svolge (“Ragazzo”, “Puer aeternus”, “Senex”, “La terza età”) si dipinge a tinte fosche l'ultima parte dell'esistenza; lo stile pungente, efficace nella sua trasparenza propone una visione totalmente di quella che senza infingimenti va detta vecchiaia: l'ombra della morte incombe su tutto, in un lento e patetico trascinarsi verso la fine inevitabile, la cui irrimediabilità avvelena inevitabilmente ogni possibile gioia. Non vi è serenità, se non a pochi, faticosi sprazzi, a quanto pare. Perciò sarebbe assai meglio morire giovani. Il futuro non può portare nulla, è orribile; il ricordo del passato una tortura. “Tutto è opaco,oscuro, ingrigito”; “la vecchiaia ti fissa in se stessa, è come se non fossi mai esistito”.
    Non si tratta di concezioni originali, com'è evidente, ma liquidarle come l'espressione di un vissuto personale non è così facile di fronte alla lingua tagliente di Fini; si avverte un senso di claustrofobia procedendo nella lettura, la sensazione della più totale mancanza di prospettive, di alternative. Di speranza. Vecchiaia come un vicolo cieco. Non si può dubitare che se la finalità dell'autore è quella di trasmettere la propria vertigine di orrore, può essere considerata adempiuta (“diciamo la verità. I vecchi fanno schifo”, si legge in una pagina singolare per la sua brutale rappresentazione della sordida decadenza senile, p. 76).
    Si può domandarsi se si debba leggere il testo come un puro sfogo personale o come un contenuto con la pretesa di una validità oggettiva; solo in quest'ultimo caso avrebbe senso una ragionata ponderazione delle argomentazioni per valutarne l'eventuale validità. In realtà la vena del polemista emerge a tratti, finché nell'ultimo capitolo, allargando lo sguardo alla società contemporanea confluisce nella consueta critica della modernità: quest'ultima parte è probabilmente la più interessante, aiutandosi con brani di dottrina antropologica atti a dimostrare la differenza fra la morte e la vecchiaia vissute nelle società prmitive e premoderne e le modalità odierne atte a cancellare l'idea stessa della morte. Avulso dall'impetuoso sviluppo tecnologico che priva l'esperienza senile di qualsiasi utilità sociale e perciò privo della posizione di rilievo sociale ad essa correlata, il vecchio va incontro alla fine privo anche degli elaborati rituali a base clanico-familiare, spesso in una solitudine ospedaliera spietatamente anestetizzata.
    La base valoriale della posizione di Fini, valutabile in maniera quasi indipendente dalla sua polemica anti-modernità, è una forma di paganesimo vitalistico. Non riconoscendo validità ad alcuna istanza al di fuori del mondo sensibile – siano valori religiosi o simili -  l'unico termine di riferimento rimane la natura e la vita. La quale può darsi senso da se stessa, scegliendo un qualsiasi assioma di partenza, perché tutti sono in qualche modo arbitrari. Il corollario è la inevitabile dissoluzione di ogni criterio di senso quando essa stessa, la vita, si dissolve. Una posizione esistenziale e filosofica assai vicina a Nietzsce. Così si rende comprensibile la sottovalutazione di molte modi di vivere la vecchiaia assi più felici di quelle foscamente dipinte nel presente testo: quelli di chi si rifà a valori di tipo religioso – come una grandissima parte del mondo non occidentale, fra l'altro – peri quali la morte non è la fine. O di chi si identifica in un processo storico conferendogli un valore tale da felicitarsi del suo progresso al di là della propria sopravvivenza personale. Torna in mente a tale proposito un rivoluzionario di cui narra Victor Serge nelle sue Memorie di un rivoluzionario secondo il quale non potendo ragionevolmente prevedere la fine dell'umanità, la dedizione ad essa assume un carattere di assolutezza etica.
    Ma anche rimanendo al di fuori di tali tipologie c'è una varietà di casi che Fini, curiosamente, sembra non immaginare nemmeno, come quella di chi avendo avuto una vita piena di vicende dolorose e brutali, si ritrova da anziano finalmente in una situazione più serena. O quando una vita intellettualmente ricca trova un suo coronamento in una fase di matura e più consapevole comprensione di sé, al di là della necessità di affermarsi nel "mercato delle idee", o conseguendo un prestigio mai mietuto in gioventù (1). Lo stesso può darsi in casi non troppo rari O quando entra in gioco la più banale delle situazioni esistenziali: l'amore, spogliato per lo più della componente più fisica ma anche delle nevrosi dell'indaffarata generazione di mezzo. La decurtazione di questi aspetti da parte del Fini-pensiero appare proprio essere una ricaduta – questa si - del vissuto dell'autore medesimo.


    1 Lo stesso Fini può essere citato come esempio: nonostante il successo dei suoi libri, solo negli ultimi tempi le sue idee hanno trovato un seguito tanto da costituirsi come movimento d'opinione (si veda www.movimentozero.org ), il che fa di lui un opinion maker indubbiamente più influente adesso che dieci anni fa, nonostante il pervicace ostracismo dei media. 

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