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Biblioforum


Laplantine François, Identità e métissage. Umani al di là delle apparenze, Eleuthera 2004.

  •  Laplantine François, Identità e métissage. Umani al di là delle apparenze, Eleuthera 2004.

    Chi ha scarsa familiarità col pensiero poststrutturalista degli ultimi anni, avrà di questo libro un’impressione di caos e disordine, e tale impressione sarà – per molti versi – giustificata.
    Premettiamo che l’autore – docente di etnologia – non si qualifica come appartenente ad alcuna corrente contemporanea (postmodernista, poststrutturalista[1] e simili), ma il tono generale e le tematiche affrontate lo avvicinano ad alcuni degli autori più famosi del panorama francese degli ultimi trent’anni(2).
    Il testo è composto da due sezioni, dedicate rispettivamente all’identità e alla rappresentazione, o meglio alla loro critica. Ognuna di esse è formata da svelti capitoletti, che non paiono collegati da una salda progressione logica dell’argomentazione: coerentemente con un pensiero portato ad affermare la frammentazione, la pluralità (“oggi la conoscenza può essere solamente frammentaria e incompiuta”, p. 9) anche la forma di espressione si presenta decentrata, anche in ragione dell’ispirazione fortemente letteraria dei saggi (Pessoa, Proust, Montaigne, Joyce, Beckett). Non è necessario iniziare dal primo capitolo, ognuno potrebbe essere gustato indipendentemente degli altri.
    L’ispirazione filosofica del testo risulta evidente dal fatto che le nozioni criticate non hanno alcuna caratterizzazione precisa: l’identità è criticata non tanto come termine sociale (le identità etniche, o nazionali) o psicologico (l’identità personale, sessuale, professionale) ma come concetto in sé, come modo di concepire il mondo. Perciò, anche se la frequenza dei richiami alla storia dell’antropologia e della sociologia fanno intuire il retroterra teorico-disciplinare di Laplantine, la sua ambizione è di dare un contributo ad una nuova forma di pensiero, che rigetti le vecchie nozioni e che faccia della accettazione della contingenza e della precarietà della realtà il suo carattere principale.
    L’identità – assieme al fondamento e al primato dell’essere – è il bersaglio principale di tale operazione, in quanto raggela il divenire della realtà in definizioni rigide e ne nega le contraddizioni interne, rigettandole all’esterno. La priorità dell’essere va intesa in questo senso ma anche in quello per cui il definire un qualcosa “per quello che è veramente” uccide la sua individualità inglobandolo in una più ampia definizione (“X è un uomo” schiaccia sotto il carattere generale di umanità i tratti individuali di X).Tale logica domina il pensiero occidentale da Platone, che è visto come il suo capostipite. Tutte posizioni, si noterà, che collegano con buone dosi di evidenza Laplantine all’influsso di Nietzsche. L’affermazione sulla funzione di negazione dell’alterità con il trasferimento all’esterno delle contraddizioni interne ci porta invece a supporre che al di sotto della superficie del testo l’autore rifletta sulle dinamiche del nazionalismo: cementare l’unione di un gruppo sociale negandone la eterogeneità interna fa divenire gli esterni una massa indifferenziata di nemici.
    Ancora maggiore pare la vicinanza alle tematiche del pensiero novecentesco se passiamo alla critica della rappresentazione. Crediamo che qui sia il perno del discorso, di cui la parte precedente può essere considerata un complemento ulteriore: si tratta di mettere in questione il linguaggio come facoltà idonea a “dire” la realtà oggettiva, “identitaria”. Idoneità che finché non viene messa in discussione tende a dare un’immagine della realtà corrispondente forse più alle regole del linguaggio stabilite dai pensatori ufficiali che alla sua configurazione concreta. E se tale operazione non è definita da Laplantine come una vera e propria menzogna e bugia – come fede Nietzsche – si respinge ogni sua credibilità ( “la rappresentazione è una nozione debole. Si tratta di una nozione del tutto sterile […]”, p. 75).
    Se si conclude che l’interesse epistemologico(3) è al cuore del testo, sulla base di eredità filosofiche assai pregnanti – riprese con stile penetrante e accattivante, ma con un ristretto margine di originalità per la sostanza teorica –  va detto che l’autore non procede a costruire una alternativa, limitandosi al rinvio ad un’altra opera(4) e richiamandosi alla necessità di includere nella nuova forma di pensiero – chiamata métissage – il contingente con l’umorismo e l’ibridazione dei generi.

    1 Il postmodernismo è un termine che – in qualche misura – possiede un contenuto vero e proprio, caratterizzato dall’abbandono di alcune nozioni tradizionali, sebbene fra i suoi sostenitori – il più famoso è Lyotard – non vi sia accordo su quali siano. “Poststrutturalista” è un’etichetta puramente cronologica, invece, che designa le correnti successive allo strutturalismo degli anni ‘50-60 (anch’esse accomunate da temi e problemi comuni, sull’impostazione dei quali – per non parlare delle risposte! – c’è ancora meno accordo che nel postmodernismo) Si può dire che i due termini si sovrappongano, ma solo in parte.

    2 Si citano esplicitamente Baudrillard, Deleuze e Foucault.

    3 Che riguarda cioè i fondamenti del sapere (episteme=sapere in greco); in questo caso alludiamo alla critica del linguaggio che privandolo della possibilità di “dire” la realtà pone in dubbio la possibilità stessa di una qualche conoscenza.

    4 F. Laplantine – A. Nouss, Le métissage , Paris 1997.
     

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